Sip: bene stretta su pediatri a gettone ma occorre strategia uscita

La proposta: unicità rapporto Pediatra ospedaliero e del territorio

La “stretta” decisa dal governo sul ricorso ai Pediatri a gettone è giusta e condivisibile, ma occorre trovare una “strategia di uscita” per garantire la sopravvivenza di molti reparti di Pediatria. L’appello arriva dalla Società Italiana di Pediatria, che sottolinea come l’aumento progressivo dell’età media dei Pediatri e del numero di pensionamenti, sia nel territorio che in ospedale, e il numero crescente di pediatri che scelgono di lasciare l’ospedale per dedicarsi al territorio o all’attività privata, stiano mettendo a rischio il funzionamento stesso di molte strutture ospedaliere di Pediatria e di Punti Nascita, nei quali non si riesce più ad assicurare la continuità dell’assistenza. Proprio per tale ragione numerose realtà, per tamponare l’emergenza personale, sinora hanno fatto ricorso ai medici gettonisti, con poco controllo su professionalità e competenza degli operatori ed a discapito della sicurezza delle cure. Un fenomeno certamente da contrastare, prevedendo però adeguate contromisure, senza le quali ben 65 Pediatrie di tutta Italia rischierebbero la paralisi.

Quali le proposte avanzate dalla Società Italiana di Pediatria? “La razionalizzazione delle piccole Strutture Ospedaliere di Pediatria (ormai quasi esclusivamente dedicate ad una attività ambulatoriale di “emergenza”, spesso in condizioni di estrema precarietà assistenziale e strettamente collegate al mantenimento di Punti Nascita substandard) può rappresentare un primo intervento, ma non in grado, da sola, di dare una risposta efficace e duratura. Altro provvedimento utile per tamponare la criticità della situazione può essere rappresentato dal ricorso all’attività aggiuntiva (con remunerazioni orarie sovrapponibili a quelle riservate ai gettonisti) da parte di specialisti dipendenti del Servizio Sanitario Nazionale, superando il limite dell’appartenenza alla stessa Azienda e favorendo una disponibilità su base regionale (ed eventualmente anche extraregionale)”. Nella consapevolezza di come sia però necessaria una strategia di cambiamento di più ampio respiro, la Società Italiana di Pediatria propone che, “almeno fino al superamento della situazione di emergenza, sia modificata la modalità di accesso al mondo del lavoro dei giovani Pediatri e degli specializzandi dell’ultimo biennio del percorso formativo, strutturando un rapporto di lavoro che preveda lo svolgimento dell’attività assistenziale da parte di ciascun professionista sia in Ospedale che sul Territorio. Questa modalità, da considerare obbligatoria per tutti i nuovi Pediatri assunti dal SSN, potrebbe essere estesa, su base opzionale, anche a coloro che già prestano servizio, sia come pediatri ospedalieri che come pediatri di libera scelta. Un modello organizzativo di questo tipo potrebbe ridurre il fenomeno della “fuga” dagli ospedali e, al tempo stesso, consentire una migliore copertura territoriale anche nelle aree geografiche più svantaggiate. Sarà necessario declinare meglio le modalità di strutturazione dei diversi contratti di lavoro e definire gli aspetti economici, ma il superamento del rapporto di esclusività appare il passaggio fondamentale sul quale costruire i nuovi modelli operativi dell’assistenza pediatrica e neonatologica nel nostro Paese”.

“Già oggi, infatti”, conclude la Società Italiana di Pediatria, “non vi sono i medici specialisti in Pediatria necessari per mantenere l’attuale sistema organizzativo, realizzatosi nel nostro Paese a partire dal 1980, che prevede una assistenza pediatrica territoriale distinta e non integrata con quella ospedaliera. Il gap già esistente è destinato ad aumentare nei prossimi 3-4 anni, nonostante la riduzione della natalità e l’aumento del numero dei contratti per le scuole di specializzazione, per il numero elevato di pensionamenti tra i pediatri di famiglia e di dimissioni volontarie tra i pediatri ospedalieri”.

Fonte: askanews.it

Patologia incurabile dalla diagnosi complessa. Settembre è il mese dedicato allasensibilizzazione sulla PCOS

La sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) è una condizione cronica che non può essere curata. La causa è sconosciuta e con una diagnosi complessa è uno dei disturbi ormonali più comuni che colpisce circa l’8-13% delle donne in età riproduttiva (Organizzazione Mondiale della Sanità). Proprio settembre è il mese dedicato alla sensibilizzazione su questa patologia, molto diffusa ma talvolta poco conosciuta.

“La sindrome dell’ovaio policistico ha un impatto significativo sulla salute metabolica e riproduttiva della donna e fino al 70% dei casi non viene diagnosticato – spiega Marco Grassi, ginecologo presso l’ospedale ‘C. e G. Mazzoni’ di Ascoli Piceno – l’origine della condizione rimane ancora oggetto di discussione, ma le donne con una storia familiare di diabete di tipo 2 corrono un rischio più elevato. Tuttavia, si può affermare che la PCOS rappresenta una complessa alterazione funzionale del sistema riproduttivo, caratterizzata da un aumento degli ormoni maschili (androgeni). Questo squilibrio ormonale porta a sintomi come eccessiva peluria sul viso e corpo (irsutismo), acne e calvizie di tipo maschile (alopecia androgenetica), e disturbi mestruali che includono cicli irregolari, assenza prolungata delle mestruazioni o cicli anormalmente lunghi. Inoltre, la sindrome si manifesta con l’ingrossamento delle ovaie, aumento del numero dei follicoli disposti perifericamente, alterazioni endocrinologiche e metaboliche, tra cui iperandrogenismo, resistenza all’insulina e iperinsulinemia. E’ importante notare che non sempre l’ecografia mostra chiaramente ovaie policistiche e alcune donne con PCOS potrebbero avere immagini ecografiche non indicative della condizione”.

Il trattamento della sindrome dell’ovaio policistico (PCOS) è strettamente personalizzato, in quanto dipende dalle caratteristiche cliniche specifiche della paziente e dai suoi obiettivi riproduttivi e dal desiderio di avere figli.

“Nel caso in cui la paziente presenti sintomi come irregolarità mestruali, acne o irsutismo (eccessiva crescita di peli), può essere consigliata una terapia a base di pillole anticoncezionali contenenti estrogeni e progesterone per regolarizzare il ciclo mestruale e ridurre i livelli di androgeni, responsabili di molti dei sintomi tipici della PCOS. Per le donne che desiderano concepire, invece, l’approccio terapeutico cambia. In questi casi, si adottano trattamenti volti a stimolare l’ovulazione, con l’obiettivo di ripristinare la fertilità. Nelle pazienti in sovrappeso o obese, una perdita di peso è altamente raccomandata poiché può migliorare significativamente i sintomi e la risposta ai trattamenti. Un approccio basato su una dieta equilibrata e un’attività fisica costante non solo favorisce la perdita di peso, ma migliora anche il metabolismo e contribuisce a un migliore controllo della sindrome”.

La PCOS non implica necessariamente sterilità, come spiega il Ministero della Salute, e si ricorre all’induzione dell’ovulazione se la anovularietà è sistematica e unica causa dell’impossibilità di procreare. Inoltre stili di vita sani e corretti da tenere fin dalla giovane età della donna aiutano a prevenire questa particolare condizione clinica.

Fonte: askanews.it

Bilotta (direttore “Alma Res”): incidono età e comportamenti, ma spesso cura esiste

Combattere l’inverno demografico è una delle grandi sfide del nostro tempo. Con appena 379mila bambini venuti al mondo, il 2023 ha evidenziato nel nostro Paese l’ennesimo minimo storico di nascite, l’undicesimo di fila dal 2013. Il trend della denatalità dal 2008 (577mila nascite) non ha conosciuto soste, determinato sia da un’importante contrazione della fecondità (numero di figli per donne in età riproduttiva) sia dal calo del numero di donne in tale fascia di età (per l’invecchiamento della popolazione). Il numero medio di figli per donna negli ultimi sessant’anni è sceso dal 2.70 (1964) a 1.20 (2023) e già da quarant’anni non supera l’1.5 (1.48 nel 1984). Il bassissimo numero medio di figli per donna interessa tutto il territorio nazionale (Nord: 1.21; Centro: 1.12, Sud e Isole: 1.24), mentre fino a trent’anni fa la fecondità era molto superiore nel Sud rispetto al Centro e al Nord (basti pensare che nel 1964 era 3.30 nel Mezzogiorno, 2.38 nel Centro e 2.37 nel Nord).

Un problema, quello della denatalità, causato non soltanto da ragioni economico-sociali (stipendi bassi, aumento del costo della vita, mancanza di servizi a sostegno delle famiglie, etc.), ma anche dalle crescenti difficoltà di concepimento nelle coppie che desiderano avere un figlio. In Italia è stata istituita la Giornata nazionale della salute riproduttiva (22 settembre), proprio con l’obiettivo di promuovere l’attenzione e l’informazione sul tema della fertilità.

“Secondo le stime dell’Istituto Superiore di Sanità, in Italia circa il 15% delle coppie è infertile e questa condizione può dipendere in egual misura sia dalla donna che dall’uomo. Non esistono in Italia dati specifici sulla prevalenza di questo fenomeno – afferma il Professor Pasquale Bilotta, direttore del Centro Fecondazione Assistita “Alma Res” di Roma -. Generalmente si parla di infertilità di coppia in caso di mancato raggiungimento della gravidanza dopo un anno di rapporti sessuali regolari e non protetti. Tra le cause primarie vi è senz’altro il fattore età – dai 40 anni in poi la percentuale di fertilità media è il 20% rispetto a quella riscontrata a 25 anni – ma anche abitudini non sane, come fumo, consumo di alcol oppure condizioni psicologiche limitanti, quali ansia e stress da ritmi di vita/lavoro troppo frenetici. Spesso, comunque, parliamo di patologie prevenibili facilmente curabili, per questo è molto importante una corretta informazione”.

Secondo i dati più recenti dell’ISS, nel 2021, oltre 86.000 donne in Italia si sono sottoposte a trattamenti di fecondazione assistita. La fascia d’età più rappresentata è quella tra i 35 e i 40 anni, seguita dalla fascia tra i 30 e i 35 anni. Il tasso di successo delle procedure varia in base all’età della donna e alla tecnica utilizzata, con una media nazionale del 25% di gravidanze per ciclo di trattamento di fecondazione in vitro. Le donne sotto i 35 anni hanno registrato i tassi di successo più alti, con una percentuale che raggiunge il 40%, mentre per le donne sopra i 40 anni il tasso di successo scende al 15%.

“Non esiste un percorso universalmente valido per tutte le coppie – spiega il Professor Bilotta – Per questo, l’obiettivo primario del nostro Centro è ricercare approcci personalizzati, basati su caratteristiche genetiche e biologiche individuali. Non solo: puntiamo al miglioramento delle tecniche di congelamento e scongelamento di ovociti ed embrioni e investiamo nello sviluppo di nuove metodologie per la diagnosi precoce di malattie genetiche rare”.

Secondo il direttore di Alma Res – che vanta oltre 17mila trattamenti di riproduzione assistita realizzati e più di 7mila bambini nati – è fondamentale continuare a migliorare il quadro normativo per assicurare un accesso equo e sicuro per tutti: “Nel Lazio, per esempio, le coppie che decidono di ricorrere alla fecondazione assistita tramite SSN si recano in altre regioni. Le motivazioni sono legate alla scarsa offerta pubblica o convenzionata nel territorio regionale, lunghe liste d’attesa e costi elevati. Con altri 21 Centri autorizzati privati, stiamo costituendo un Coordinamento a livello regionale: auspichiamo la creazione di un Network di centri pubblici e privati, disponibili a erogare prestazioni in convenzione con il Servizio sanitario nazionale, in modo da aumentare l’offerta e garantire alle coppie un maggiore accesso ai trattamenti di fecondazione assistita”.

Fonte: askanews.it

Ospedale romano eccelle anche per Gastroenterologia e Pneumologia

Dopo essersi confermato al primo posto tra i migliori ospedali italiani, per il quarto anno consecutivo, nella classifica World’s Best Hospitals di Newsweek, Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs aggiunge altre medaglie d’eccellenza al suo palmarès per specialità, nel ranking dei World’s Best Specialized Hospitals 2025, appena pubblicato. Anche quest’anno, l’ospedale romano si conferma primo in Italia per le specialità Ginecologia e Ostetricia (quest’anno balzata al quarto posto della classifica mondiale, dopo aver esordito lo scorso anno al settimo posto), Gastroenterologia (che consolida la sua posizione all’ottavo posto nel mondo) e Pneumologia.

Sia la Ginecologia che la Gastroenterologia del Gemelli, secondo questa classifica, sono inoltre prime tra i Paesi dell’Unione Europea. Di rilievo anche il secondo posto in Italia dell’Endocrinologia e della Neurologia e il terzo posto dell’Oncologia, della Cardiologia e dell’Ortopedia. I risultati della classifica 2025, pubblicati oggi, sono stati accolti con grande soddisfazione dai vertici del Policlinico Gemelli e dagli artefici di questo successo internazionale.

“Il risultato ottenuto dalla Ginecologia e Ostetricia del Gemelli nella classifica World’s Best Specialized Hospitals 2025 – afferma il professor Giovanni Scambia, Direttore scientifico del Policlinico Universitario Agostino Gemelli Irccs, ordinario di Ginecologia all’Università Cattolica – ci gratifica molto perché premia la nostra volontà di essere sempre all’avanguardia da un punto di vista tecnologico, di riservare grande attenzione agli aspetti organizzativi della nostra struttura e, allo stesso tempo, di curare molto il rapporto con le nostre pazienti. Tutto questo rende la Ginecologia del Gemelli un dipartimento davvero ‘paziente-centrico’. Un concentrato di tutta l’innovazione possibile, mai disgiunta però da una estrema attenzione all’umanizzazione delle cure”.

“Questo straordinario risultato – sottolinea il professor Antonio Gasbarrini, direttore Uoc Medicina Interna e Gastroenterologia del Policlinico Gemelli Irccs, Preside della Facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università Cattolica – è frutto dell’impegno costante del nostro team multidisciplinare di esperti in malattie gastrointestinali, del fegato e del pancreas nel fornire cure di eccellenza, innovazione nella ricerca e attenzione alla centralità del paziente. Essere tra i primi dieci centri a livello mondiale rappresenta un motivo di grande orgoglio non solo per il nostro Cemad-Centro Malattie dell’Apparato Digerente, ma anche per l’Italia, che si conferma un paese leader nel campo della medicina. Questo traguardo è importante anche a livello internazionale, poiché dimostra come un approccio interdisciplinare, tecnologicamente avanzato e incentrato sulla persona possa portare a risultati d’eccellenza, offrendo speranza e cure innovative ai pazienti di tutto il mondo”.

“Siamo orgogliosi della conferma del Policlinico Gemelli ai vertici delle classifiche internazionali per diverse specialità – commenta il professor Marco Elefanti, Direttore Generale di Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS-. Ma l’eccellenza dell’offerta di assistenza ai nostri pazienti si declina attraverso tutte le 12 specialità che prende in considerazione questo ranking. Il nostro è un grande lavoro di squadra, trasversale a tutte le aree mediche e ai servizi, che tutti insieme contribuiscono a produrre eccellenza. E a fare del Gemelli il ‘miglior ospedale d’Italia’ da quattro anni consecutivi, secondo questa classifica internazionale. È un riconoscimento della qualità dell’offerta, che ci viene attributo ogni giorno dalle migliaia di persone che da tutta Italia e anche dall’estero scelgono il Gemelli per curarsi. Un vanto per il Servizio Sanitario della Regione Lazio di cui il nostro Policlinico è parte integrante”.

Newsweek in partnership con Statista, una piattaforma di intelligence di dati globali ha appena reso noto il ranking delle migliori specialità ospedaliere al mondo. La classifica, giunta alla quinta edizione, è frutto di un’indagine internazionale relativa a 12 campi specialistici: cardiologia, cardiochirurgia, endocrinologia, gastroenterologia, neurologia, neurochirurgia, pediatria, pneumologia, ostetricia e ginecologia, oncologia, ortopedia e urologia.

Fonte: askanews.it

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