Fragilità ossea: tra gli over 50, 1 donna su 3 è a rischio frattura

Ortopedici SIOT: “Fondamentale la diagnosi precoce”

Nel nostro Paese le fratture da fragilità colpiscono 1 donna su tre e 1 uomo su cinque tra gli over 50enni e, sebbene siano più frequenti tra le persone anziane, si stima che il 20% delle fratture avvenga in età di prepensionamento, come attestano le recenti Linee Guida “Diagnosi, stratificazione del rischio e continuità assistenziale delle Fratture da Fragilità” dell’Istituto Superiore di Sanità, in collaborazione con SIOT e altre Società scientifiche.

In occasione della Giornata Mondiale dell’Osteoporosi, la Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia, SIOT ribadisce l’importanza della diagnosi precoce per il trattamento dell’osteoporosi e raccomanda visite specialistiche alle donne over 50 e agli uomini dai 65 anni in su per valutare lo stato della propria salute ossea e prevenire la comparsa di fratture.

Come emerge nelle Linee Guida, è stato stimato che le fratture da fragilità siano responsabili di più di 9 milioni di fratture ogni anno in tutto il mondo. Nel 2017, sempre secondo i dati, sono state stimate a livello mondiale 2,7 milioni di nuove fratture da fragilità, equivalenti a 7.332 fratture al giorno, 305 all’ora. Nelle donne si è verificato quasi il doppio delle fratture (66%) e, in generale, le fratture del femore prossimale (collo del femore), delle vertebre e del polso/omero prossimale (spalla) hanno rappresentato rispettivamente il 19,6%, 15,5% e 17,9% di tutte le fratture.

“L’identificazione della fragilità scheletrica – spiega Alberto Momoli, Presidente SIOT e Direttore UOC Ortopedia e Traumatologia Ospedale San Bortolo, Vicenza – è fondamentale per identificare il rischio di frattura del soggetto e applicare interventi terapeutici mirati e prevenire il peggioramento del quadro clinico. Per una valutazione del rischio di fragilità è fondamentale un’accurata anamnesi del paziente utile a identificare ulteriori fattori compromettenti la salute delle ossa: terapie farmacologiche o ulteriori patologie, possono compromettere la resistenza scheletrica peggiorando la fragilità dell’osso con inevitabile aumento del rischio di frattura”. Se la protezione della salute delle ossa inizia sin dall’infanzia con una corretta alimentazione, ricca di calcio e vitamina D e uno stile di vita attivo che comprenda un’adeguata attività fisica, le stesse indicazioni valgono anche da adulti: mantenere una buona densità ossea e prevenire il rischio di fratture soprattutto nell’età considerata più a rischio, in menopausa e post menopausa per le donne e senile per gli uomini. In tarda età un giusto movimento, uno sport aerobico leggero e un allenamento propriocettivo, insieme ad una corretta alimentazione possono intervenire a beneficio della perdita di forza muscolare, ridotta coordinazione dei movimenti e inevitabile rischio di caduta. In Italia, secondo le Linee Guida si stima che la prevalenza dei soggetti con osteoporosi ultra 50enni corrisponda al 23,1% nelle donne – il cui numero è aumentato del 14.3% dal 2010 al 2020 – e al 7,0% negli uomini. “Una corretta valutazione della fragilità ossea attraverso specifici esami del sangue e la mineralometria ossea computerizzata, MOC – prosegue Alberto Momoli – permette quindi di identificare precocemente i soggetti ad alto rischio di sviluppare esiti negativi, consentendo l’implementazione tempestiva di contromisure preventive/terapeutiche. Inoltre, ci sono diverse condizioni, come quelle infiammatorie o il trattamento con farmaci glucocorticoidi, che risultano essere molto importanti nella valutazione della fragilità ossea, in quanto riducono la forza ossea e aumentano il rischio di frattura. Riguardo al trattamento, esistono diverse opzioni terapeutiche efficaci che possono variare a seconda della gravità del caso, dei fattori di rischio e della presenza di altre patologie. È importante rivolgersi sempre a uno specialista, che saprà indicare il trattamento più adatto per ogni singolo individuo”.


Fonte: askanews.it

A Lipids in Rome gli esperti fanno il punto

In Italia ogni anno 230.000 persone muoiono a causa di malattie cardiovascolari, e circa 47.000 decessi sono attribuibili al mancato controllo del colesterolo. Una condizione che non riguarda esclusivamente la fascia di età più elevata poiché le stime epidemiologiche mostrano che la malattia si manifesta nel 73% nel sesso maschile e nel 43% di quello femminile già in età giovanile e nella mezza età. Il colesterolo rappresenta infatti uno tra i più importanti fattori di rischio cardiovascolare, causando per il Sistema Sanitario Nazionale un impatto clinico, organizzativo ed economico enorme. Ciò nonostante secondo le più recenti Linee Guida internazionali, su oltre 1 milione di pazienti a più alto rischio l’80% non raggiunge il target indicato. Il controllo del colesterolo, causa di sviluppo e crescita delle placche, è uno dei principali obiettivi della terapia mirata alla prevenzione cardiovascolare. Lipids in Rome, evento organizzato dall’ANMCO – Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri, nella sua seconda edizione riunisce a Roma esperti provenienti da tutta Italia per discutere, condividere, e confrontarsi sulle principali novità in merito a quella che è una vecchia sfida per la quale sono però disponibili nuove soluzioni. L’evento Nazionale si svolgerà il 22 e 23 Marzo presso il Centro Congressi Auditorium Aurelia in collaborazione con la Società Italiana per lo Studio dell’Aterosclerosi e con il patrocinio della più importante società scientifica cardiologica statunitense, l’American College of Cardiology. Fabrizio Oliva – Presidente ANMCO e Direttore Cardiologia 1 dell’Ospedale Niguarda di Milano – dichiara: “Nel corso dell’incontro l’attenzione verrà focalizzata sulla necessità di un trattamento precoce soprattutto dopo eventi acuti come l’infarto del miocardio. La comunità scientifica internazionale è infatti unanimemente concorde sul beneficio che può apportare l’impiego di farmaci ad alta efficacia somministrati quanto prima possibile in modo da evitare che i pazienti siano esposti ai rischi dovuti a livelli di colesterolo elevato. Negli ultimi anni grazie a studi osservazionali su larga scala che hanno incluso centinaia di migliaia di persone è stato dimostrato che quanto più a lungo gli individui sono esposti a livelli elevati di colesterolo tanto maggiore è il rischio di sviluppo e crescita delle placche aterosclerotiche con conseguente rischio di manifestazioni acute quali l’infarto. Per tale motivo le più recenti raccomandazioni formulate dagli esperti di tutto il mondo indicano l’importanza di utilizzare, dopo un evento acuto, non solo farmaci ad alta efficacia ma fin da subito una combinazione farmaci, se necessario includendo farmaci più innovativi come l’acido bempedoico o gli inibitori di PCSK9, cosi’ da aumentare la probabilità di successo della terapia e anche l’aderenza al trattamento ovvero il prosieguo nel tempo della terapia prescritta. Allo stesso modo quando gli elevati livelli di colesterolo sono conseguenza di malattie genetiche, e quindi presenti fin dalla più giovane età, per evitare i danni correlati alla persistente esposizione al colesterolo per numerosi anni, ovvero evitare lo sviluppo e la crescita delle placche, è necessario mettere in pratica un approccio simile, cioè, utilizzare subito farmaci potenti ed in combinazione cosi’ da favorire il mantenimento della terapia nel lungo tempo”. Furio Colivicchi – Past President ANMCO e Direttore Cardiologia Clinica e Riabilitativa dell’Ospedale San Filippo Neri di Roma – sottolinea: “I due giorni di lavori sono l’occasione per discutere anche delle crescenti evidenze sulle novità all’orizzonte in termini di possibilità di ridurre il rischio cardiovascolare attraverso farmaci, come le piccole molecole di RNA (siRNA) o gli oligonucleotidi antisenso (OSA), in grado di modulare l’espressione di proteine che giocano un ruolo nel metabolismo dei grassi circolanti, con molecole che agiscono in maniera selettiva a livello del fegato. Questo tipo di trattamento ha il vantaggio di avere una lunga durata d’azione, quindi non richiedere una somministrazione quotidiana del farmaco e garantire in tal modo una maggiore aderenza alla terapia. Da circa un anno è a disposizione l’inclisiran, un farmaco che permette di ridurre il colesterolo cattivo in circolo attraverso iniezioni sottocutanee praticate due volte l’anno. Questo grazie al suo meccanismo d’azione del tutto innovativo ovvero riducendo l’espressione di una proteina che interferisce con la captazione del colesterolo plasmatico da parte delle cellule del fegato. La ricerca scientifica, sfruttando un meccanismo d’azione simile, ovvero di modulazione dell’espressione di proteine, sta sviluppando nuovi farmaci rivolti verso altri fattori che aumentano il rischio cardiovascolare e che possono essere responsabili di eventi acuti proprio come il classico colesterolo cattivo. Uno degli obiettivi dei farmaci in via di sviluppo è ad esempio la lipoproteina(a) che, quando è elevata, anche se si interviene efficacemente sul colesterolo cattivo in circolo, può favorire eventi acuti e potenzialmente invalidanti come l’infarto e l’ictus, ma anche la malattia di valvole cardiache come la stenosi valvolare aortica calcifica”. “Globalmente anche l’edizione 20224 di Lipids in Rome 2024 – conclude Colivicchi – sarà un’eccellente opportunità di aggiornamento in campo di gestione delle malattie cardiovascolari associate agli elevati livelli di colesterolo e altri lipidi nel circolo sanguigno, con uno sguardo alle promettenti ed innovative opzioni terapeutiche attese per il prossimo futuro”.


Fonte: askanews.it

Oggi si combatte con l’ortobiologia. E senza bisturi.

Combattere l’artrosi si può, anche senza bisturi: dopo i trattamenti infiltrativi con farmaci antinfiammatori e quelli a base di acido ialuronico, oggi la ricerca si concentra su infiltrazioni con i derivati del sangue, i cosiddetti PRP (Plasma Ricco di Piastrine), fino ad arrivare ai trattamenti con le cellule mesenchimali estratte dal midollo osseo o dal grasso sottocutaneo. Parliamo di ortobiologia, metodiche che sfruttano le capacità rigenerative delle cellule del corpo umano con l’obiettivo di stimolare la ricrescita di alcuni tessuti e di attenuare l’infiammazione, trattamenti non chirurgici e mini invasivi che accendono nuove speranze per coloro che fino a qualche anno fa avevano come unica scelta terapeutica l’intervento di sostituzione protesica. Queste tecniche di medicina riparativa e rigenerativa sono applicabili al trattamento conservativo delle articolazioni, ma anche alla fase post-intervento chirurgico, per migliorarne l’esito, favorendo la guarigione dei tessuti.

L’artrosi è una malattia articolare cronico-degenerativa a carattere progressivo che colpisce in Italia circa 4 milioni di persone: “Per il trattamento dell’artrosi, patologia degenerativa che aumenta con l’età – spiega Alberto Momoli, Presidente della Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia, SIOT e Direttore UOC Ortopedia e Traumatologia, Ospedale San Bortolo, Vicenza – si sono aperte nuove strade per cure più conservative e, grazie alle tecniche di ortobiologia, siamo entrati in una nuova era in ambito ortopedico. Questo tipo di procedure riguarda però le fasi iniziali dell’artrosi, i gradi 2 e 3. Mentre se l’artrosi è di quarto grado non ci sono alternative all’intervento chirurgico. E’ fondamentale l’intervento precoce”.

Evidenze scientifiche hanno dimostrato l’efficacia delle infiltrazioni con l’acido ialuronico e con il PRP, e la letteratura più recente anche quelle con le cellule mesenchimali, in particolare nell’articolazione del ginocchio. Fra i trattamenti infiltrativi in prima linea per il trattamento conservativo dell’artrosi di ginocchio c’è l’acido ialuronico che viene iniettato nell’articolazione allo scopo di lubrificarla e nutrire la cartilagine rimanente, una pratica clinica ormai diffusa che mostra benefici anche nell’artrosi dell’anca. Nel caso dell’articolazione del ginocchio, quando la risposta a questa terapia non fosse sufficiente, è possibile ricorrere alle infiltrazioni con i derivati del sangue, PRP. In questo caso, dal sangue del soggetto, opportunamente centrifugato, viene estratto il plasma ricco di piastrine che, iniettato, favorisce il rilascio di fattori di crescita piastrinica, cioè di molecole che consentono ai tessuti di ripararsi e rigenerarsi. Il PRP trova ampia applicazione anche nella rigenerazione dei tendini della spalla. Un’ulteriore possibilità, ancora in fase sperimentale, è offerta dalle cellule staminali mesenchimali estratte dal tessuto adiposo addominale e poi infiltrate nell’articolazione artrosica. “Si tratta di una procedura più complessa rispetto a quella prevista dalla cura con il PRP – precisa Momoli – ma si svolge anch’essa in regime ambulatoriale. In entrambi i casi è importante rivolgersi a centri certificati e con elevati standard qualitativi. Quando usato su persone con artrosi, il trattamento a base di cellule mesenchimali, utile anche in caso di tendiniti, è molto efficace sul ginocchio e un po’ meno sull’anca. Bisogna, comunque tener presente che tale cura è in grado solo di rallentare il processo artrosico, ma non di farlo regredire”.


Fonte: askanews.it

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